L’Orphée, scritto da Jean Cocteau a Villefranche-sur-Mer nel settembre 1925, rappresentato al Théâtre des Arts di Parigi il 17 giugno 1926, pubblicato, sempre a Parigi, dall’editore Stock, nel 1927, è il testo teatrale che tutti dovrebbero leggere, il dramma al quale tutti dovrebbero assistere. Un atto e un intervallo bastano a Cocteau per ribadire, con pungente efficacia, l’eternità di un mito, quello di Orfeo, nel cui svolgimento André Fraigneau scorge lucidamente la «fatalità dell’ispirazione poetica», l’inesorabile tragedia di una poesia nuda, onesta, che si fa implacabile verità (A. Fraigneau, Cocteau par lui-même, Paris, Éditions du Seuil, 1957).
Per nulla casuale, dunque, la presenza del tema della morte, trascinato da Cocteau, con intrigante meccanismo di slittamento, dal piano mitico degli “inferi”, luogo in cui Euridice è prigioniera, alla dimensione concreta, tangibile, grottescamente attuale della realtà. Oltre alla mediazione ovidiana, nutriente è l’appiglio a Rilke e al suo monumento funebre Die Sonette an Orpheus. Geschrieben als ein Grab-Mal für Wera Ouckama Knoop (Leipzig, Insel Verlag, 1923), in cui solo la parola riesce ad aver ragione della morte, solo la poesia riesce a vendicare il quotidiano scacco dell’umano. Assai influenti, poi, la triste fine dell’amico Raimond Radiguet, icona ispiratrice dell’amor giovane, e l’abisso mistificatore dell’oppio, dal quale Cocteau riemerge, provato, grazie alle cure, a Maritain e ai sacramenti.
La Morte messa in scena (siamo nella villa di Orfeo, in Tracia) appare come una «giovane bellissima in abito da ballo rosa acceso e mantello di pelliccia. Ha grandi occhi azzurri dipinti su una mezza mascherina; parla in fretta, con voce secca e distratta. Anche il suo camice da infermiera deve essere il non plus ultra dell’eleganza. I suoi aiutanti hanno l’uniforme, la maschera bianca, i guanti di gomma dei chirurghi quando operano» (p. 13). Anche quando “opera”, catturando svogliatamente le anime per mezzo di un misterioso aggeggio elettrico, porta comunque «sotto un mantello l’abito da ballo». La rilettura del mito consente a Cocteau di rinvigorire l’immagine della morte agendo sul ribaltamento di una tradizione iconografica certo logora, tuttavia non doma. Si tratta, naturalmente, di un travestimento, di una mistificazione, di un inganno: «Una settimana fa pensavate che io fossi uno scheletro con un sudario e una falce. Mi vedevate come un babau, uno spauracchio…». E ancora: «Sì, si, sì. Tutti lo credono. Ma, mio povero ragazzo [all’aiutante Raffaele], se fossi come tutti vogliono vedermi, mi vedrebbero; e io devo entrare da loro senza essere veduta» (p. 34). Come fa notare Debenedetti, è uno scherzo del teatro, un gioco, una magia, che, pur disorientando lo spettatore, non svuota della sua giusta carica drammatica l’esperimento scenico. Al contrario: l’elaborazione del personaggio va ritenuta una tappa cruciale nel contesto dell’articolata e costante riflessione cocteauiana sul tema della morte. C’è dell’altro, però.
Nell’Orphée, Cocteau fa sfilare la nuova donna francese che l’amica Gabrielle Chanel andava vestendo e profumando in quegli anni. Già nel 1922, per l’Antigone che non piacque a Breton, e poi ancora nel 1924, per Le Train bleu danzato dai giovani dei Balletti Russi in sgambettante mise da bagno (entrambi i lavori con scenografie di Picasso), Coco aveva predisposto costumi insuperabili, grafici, segnati da linee rintracciabili nelle collezioni coeve e da stilizzazioni d’avanguardia. E anche in quel 1926 dell’Orfeo, l’anno della «petite robe noire, semplice tubino di crêpe nero, maniche lunghe e attillate e fa del nero la chiave del successo contro la folla multicolore, antidodo al cattivo gusto, ai colori chiassosi» (I. Fiemeyer, Coco Chanel. Un profumo di mistero, Roma, Castelvecchi, 2008), Chanel scommette sulla semplicità e sul contrasto fra il neutro camice da corsia e l’aggettante vestito da ballo rosa, denso di personalità, certezze, vigore. Anche grazie alle collaborazioni con Cocteau, il cui teatro possedeva una non comune forza comunicativa, la donna di Chanel emerge come protagonista, autorevole, orgogliosa e sicura di sé, sostanziando credibilmente l’alternativa stilistica e culturale ai modelli fino ad allora imposti dal couturier Paul Poiret.
[Per una versione più estesa del testo, cfr. 8 disegni di Enrico Colombotto Rosso per Jean Cocteau, Novi Ligure, Città del silenzio, ottobre 2013, ed. fuori commercio in 50 esemplari numerati, pubblicata in occasione del 50° anniversario della morte di Jean Cocteau]
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